Via Trieste është...

..un blog dedicato ai luoghi dell'oralità, tra la memoria che accompagna il presente e il desiderio di riviverli nel futuro. Un viaggio al contrario. Una emigrazione alle origini necessaria per non delocalizzare la propria identità.

lunedì 25 agosto 2014

Rimani mi dicesti, ed io restai

In questo articolo, pubblicato per Exibart, rinomata rivista d'arte italiana, racconto la mia esperienza di visitatore ad una interessante mostra. In realta' alla mostra non ho dato solo un occhio ma ne ho curato l'allestimento in una interessante collaborazione con l'artista e ormai amica Agnese Purgatorio. Il resto leggetelo da soli. Attraverso ogni giorno il lungo corridoio del Palazzo della Cultura di Tirana che mi accompagna in Istituto e nelle sue aule per iniziare una nuova giornata di lavoro. Un lungo corridoio, retro illuminato, che esalta come vere e proprie opere d’arte, le locandine di una moltitudine di eventi che ricordano l’impegno di questo importante ente culturale in Albania per la diffusione e la valorizzazione della cultura italiana. Oggi quelle locandine lasciano spazio ad un viaggio, un percorso tracciato da volti che con discrezione rimangono in bilico tra confini geografici, ideali e culturali. Sono i protagonisti di "Rimani mi dicesti ed io restai" di Agnese Purgatorio tassello del mosaico progettuale di arte contemporanea CONFINI, linguaggi, spazi, cose, persone, ideato e curato da Martina Corgnati e presentato dal Ministero degli Esteri e gli Istituti Italiani di Cultura di Colonia, Strasburgo, Tirana e Zagabria in occasione del semestre italiano di presidenza europea con il coinvolgimento, oltre ad Agnese Purgatorio, di altri artisti del calibro di Maria Cristina Carlini, Agostino Ferrari, Donatella Spaziani. Ad accogliermi nell’atrio del secondo piano del Palazzo della Cultura, finestra aperta all’antica Moschea della città, che in questi giorni raccoglie i fedeli per le preghiere del Ramadam, e la suggestiva piazza Skanderberg, due collage digitali tratti dalla serie Dalla clandestinità, nei quali una folla di migranti cerca di attraversare a piedi nella nebbia il mare Adriatico incitata da un profetico Joseph Beuys. Il suono ovattato di un contrabbasso attira la mia attenzione e incuriosito raggiungo una piccola sala allestita per l’occasione dove, un suggestivo personaggio, amplificato da un vecchio megafono recita i versi del poeta armeno Hrand Nazariantz, tra i vecchi sgabelli di un antico cinema-tearo pugliese, mentre Agnese, impassibile nel volto, esteriorizza l’intensità di quelle parole trascrivendole sul suo camicie bianco. La video installazione termina con le parole di Nazariantz Rimani mi dicesti ed io restai. Sono pronto. Proseguo. Nel lungo corridoio la proiezione di una performance realizzata nel 2009 dall’artista nello stretto di Messina (il primo confine naturale che l’artista cerca di attraversare, ma non riesce mai ad approdare sulla costa siciliana e va via) dal titolo Perhaps you can write to me dello stesso formato dei pezzi esposti fa strada a 12 collages digitali (otto tratti dalla serie Fronte dell’est e quattro da Perhaps you can write to me) accompagnati da una installazione sonora che riproduce in loop i suoni del mare e della sala macchine della nave. Patti Smith, Joseph Beuys, Pasolini, Alda Merini e Anna Magnani si confondono tra i reali protagonisti di quegli scatti realizzati nei principali porti pugliesi che durante gli anni ’90 hanno accolto migliaia di profughi in fuga da miseria e oppressione. Una commistione che, seppur digitale nella realizzazione materiale, trasmette una naturale fusione tra clandestinità fisica e quella dei linguaggi fuori dalle omologazioni dei tempi. L’immagine fotografica subisce quindi un’alterazione sostanziale che, pur non modificando a prima vista il suo aspetto, ne rimodula costantemente il significato. L’ultima proiezione J'ai utilisé la mémoire, realizzato nel 2012 sul confine armeno-turco e dedicati alle donne armene sopravvissute al cammino forzato verso il deserto siriano di Der el Zor, scandisce i loro nomi, nomi scampati alla brutalità del genocidio, mentre l’artista getta mazzi di rose, nel precipizio che divide i due paesi. Un inno alla vita, dove quelle rose non sprofondano nel dirupo ma segnano un ponte ideale che indica il valore della memoria come percorso di speranza e dignità. (Carlo Pellicano per Exibart)